mercoledì 6 maggio 2009

Sul caos immigrazione pesano le colpe della legge Bossi-Fini

di Antonio Mambrino
6 Maggio 2009

Il tema della sicurezza costituisce uno dei punti qualificanti del programma di governo del Popolo della libertà. E del resto il Governo Berlusconi sin dal suo insediamento ha riservato grande attenzione al tema, dando di vita ad una produzione normativa rilevante sia dal punto di vista quantitativo che qualitativo. Ciononostante, l’impressione che si ricava è che manchi una lucida lettura dei problemi che abbiamo di fronte e quindi una coerente strategia per affrontarli.

Il pantano parlamentare in cui sembra essere precipitato il disegno legge in materia di sicurezza (che rappresenta l’interveneto più organico del Governo) ne è conferma. Il problema non è tanto quello dei tempi (il d.d.l. è stato presentato da oltre 11 mesi e ad oggi non è prevedibile la conclusione dell’esame parlamentare). Siamo ormai abituati ai tempi lunghi e soprattutto non prevedibili del Parlamento quando esamina i disegni di legge del Governo (diversi da quelli di conversione dei decreti). Il problema è piuttosto l’erraticità dell’orientamento politico parlamentare, soprattutto dei (due) gruppi della maggioranza.

In particolare, il tema sul quale il confronto politico fra PdL e Lega, e quello anche più vivace interno al PdL, sembra assumere toni kafkiani è quello del contrasto all’immigrazione clandestina. Abbiamo così assistito ad improvvisi ed aspri scontri sui temi del tempo di permanenza nei centri di identificazione, del reato di immigrazione clandestina, della facoltà di denuncia da parte dei medici del servizio sanitario nazionale o dei presidi di scuola, dell’iscrizione anagrafica di figli nati da genitori immigrati clandestini. Si tratta di temi tutti evidentemente rilevanti ma che dovrebbero trovare una soluzione meno controversa se collocati all’interno di un’organica strategia legislativa in materia.
Viceversa, proprio la mancanza di tale strategia rende tali nodi quasi inestricabili e fa sì che gli stessi finiscano per caricarsi di significati del tutto impropri di natura schiettamente tattica, relativa ai rapporti “concorrenziali” fra il PdL e lo scalpitante alleato leghista.

Venendo al merito della questione, ciò che, a nostro avviso appare urgente, è intervenire per correggere una grave anomalia della legislazione in materia di immigrazione. Con la legge Bossi–Fini è stato consolidato un approccio puramente quantitativo al tema. L’idea della legge è quella di governare il fenomeno attraverso la previsione di quote, ripartite a livello provinciale, di permessi di soggiorno per motivi di lavoro. Ma un approccio del genere si è rivelato del tutto fallace. E non solo perché frutto di una mentalità pianificatoria e costruttivista (quasi che fosse possibile pianificare centralisticamente il numero di immigrati di cui il Paese ha bisogno e che quindi è in grado di sopportare).

L’effetto più devastante di tale impostazione legislativa è stato quello di rendere del tutto insignificante, dal punto di vista della concreta pericolosità sociale degli immigrati, il dato formale del possesso o meno del permesso di soggiorno. Ad oggi esiste oggi in Italia un gran numero di immigrati irregolari che però sono perfettamente inseriti nel tessuto sociale e produttivo del Paese. Badanti e collaboratori familiari, operai e agricoltori che formalmente sono clandestini ma che da anni lavorano regolarmente e dei quali evidentemente le famiglie e le imprese hanno bisogno. Ma se ciò è vero è altrettanto vero che i nodi più controversi della materia diventano irresolubili.

Sono profondamente convinto che la previsione di un reato di immigrazione clandestina, sulla falsariga di quanto previsto in Paesi di civiltà e tolleranza indiscutibili (come Francia o Inghilterra), sia non solo legittimo moralmente ma assolutamente opportuno politicamente. E il reato andrebbe punito con la sanzione detentiva e non certo con quella pecuniaria (come ipocritamente prevede il d.d.l. all’esame della Camera dopo le modifiche apportate dal Senato). Però è chiaro che se domani mi arrestassero la badante che assiste mia madre malata, o la baby sitter che si prende cura dei miei figli, sarei molto arrabbiato non solo perché la cosa sarebbe profondamente ingiusta e contraria ai miei principi morali, ma anche perché dal giorno dopo dovrei trovare una nuova badante o una nuova baby sitter.

Il punto centrale, base di partenza per qualunque seria politica di contrasto al fenomeno è riuscire a distinguere secondo criteri sostanziali e non meramente formali l’immigrazione regolare da quella clandestina.Immigrati regolari dovrebbero essere solo quelli con un lavoro idoneo a garantir loro un dignitoso sostentamento ed un alloggio decente. A costoro andrebbe riconosciuto il permesso di soggiorno senza costringerli a quelle incivili file di disperati che si formano fuori dalle questure quando si rinnovano i permessi.

E a quel punto, differenziata su solide basi l’area dell’immigrazione regolare da quella clandestina, un atteggiamento di grande rigore nel contrasto a quest’ultima avrebbe tutt’un altro sapore. Un immigrato clandestino, cioè privo di lavoro e di alloggio stabile, sarebbe evidentemente molto sospetto di mantenersi attraverso attività illecite. Il reato di immigrazione clandestina sarebbe né più né meno di uno dei reati strumentali previsti dal codice (reati associativi, favoreggiamento, ricettazione …). Uno di quei reati il cui disvalore non è nella condotta in sé quanto piuttosto nel legame che hanno con il compimento di altri reati.

Ed è appena il caso di sottolineare come un approccio del genere avrebbe enormi ripercussioni positive su altri aspetti del fenomeno. Basti pensare alla questione assai sentita dall’opinione pubblica secondo cui vi è il rischio che gli immigrati “tolgano il lavoro agli italiani”. Oggi questo rischio (che per la verità a noi sembra in concreto abbastanza limitato) deriva dal fatto che spesso l’immigrato lavora in nero (perché in quanto irregolare non può che lavorare in nero) e quindi costa di meno. Se ciascun immigrato potesse ottenere il permesso di soggiorno dimostrando l’esistenza di un regolare rapporto di lavoro (con la minaccia del carcere in caso contrario) tale eventualità sarebbe di fatto azzerata. O anche si pensi alle ricadute positive che tale approccio avrebbe sulla più complessiva stabilizzazione ed integrazione degli immigrati nel nostro tessuto sociale (considerando che dalla stabilità dei propri rapporti di lavoro deriverebbe la stessa possibilità di permanere nel nostro Paese).

Il tema dell’immigrazione è tema troppo delicato e troppo importante per il nostro Paese. Occorre riuscire a sottrarlo alla micidiale tenaglia del doppio integralismo nel quale è precipitato. Da un lato l’integralismo xenofobo (con venature razziste) e dall’altro quello democraticistico e buonista (con venature demenziali). Un serio partito di governo, che aspiri a rimanere tale per parecchi anni, non può esimersi dall'elaborare e realizzare una propria strategia all’altezza della complessità del problema.

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