venerdì 5 marzo 2010

Alcuni chiarimenti sulla direttiva europea sulle sanzioni contro i datori di lavoro che impiegano cittadini stranieri irregolari.

Scriviamo questa mail perché nelle ultime settimane, a nostro parere, si sono diffusi alcuni equivoci sull’interpretazione della direttiva europea sulle sanzioni contro i datori di lavoro che impiegano cittadini stranieri irregolari.
Nel caso in cui i lavoratori denuncino le condizioni di sfruttamento sul lavoro la direttiva europea prevede, infatti, la possibilità di concedere permessi di soggiorno di durata limitata (validi fino alla conclusione dell’eventuale procedimento penale o fino al recupero delle retribuzioni arretrate). I permessi, nella previsione della direttiva, sono concessi con modalità simili a quelle previste dalla direttiva sulla tratta, e dunque solo sulla base di una valutazione caso per caso e della collaborazione alle indagini della vittima di sfruttamento: sostanzialmente con le modalità previste dall’art. 18 del Testo Unico sull’immigrazione. Al contrario, la possibilità che dal rapporto di lavoro irregolare, in quanto tale, scaturisca un diritto al soggiorno sul territorio per ragioni diverse (concedendo per esempio un permesso di soggiorno per ragioni di lavoro) viene esclusa esplicitamente dal paragrafo 15 del preambolo della direttiva europea (riportato in calce a questo messaggio assieme alle altre disposizioni rilevanti). Inoltre, la direttiva introduce un principio a nostro parere gravissimo, per cui il lavoro prestato senza permesso di soggiorno viene definito “lavoro illegale” (art. 2 della direttiva), mentre con l’art. 3 viene introdotto un esplicito “divieto di assunzione illegale”. Per queste ragioni, in molti paesi europei, la direttiva è stata criticata dalle associazioni che si occupano della tutela giuridica dei migrati, le quali hanno osservato come queste proibizioni rischino di spingere i lavoratori in una condizione di ancora maggiore clandestinità .
L’appello alla direttiva europea per rivendicare il riconoscimento di permessi di soggiorno di più lunga durata o di tipo diverso (ad esempio per ricerca di lavoro) ai migranti che denunciano le condizioni di sfruttamento, presente in alcune piattaforme di movimento, rischia quindi di essere ambiguo se è articolato semplicemente come appello all’ “applicazione della direttiva europea”.
L’equivoco, a nostro parere, è stato determinato dal fatto che l’articolo della legge comunitaria (poi stralciato), con il quale si attribuiva al governo una delega di attuazione della Direttiva 2009/52/CE, ne prevedeva un’applicazione estensiva.
In particolare, l’art. 48 della legge comunitaria prevedeva la concessione di permessi di soggiorno per “ricerca di lavoro” e, inoltre, “la non applicazione delle sanzioni a carico di quei datori di lavoro che scelgano di autodenunciarsi e siano disposti a regolarizzare la posizione dei lavoratori impiegati”. Entrambe queste possibilità non sono previste espressamente dalla direttiva e, quindi, fare appello alla sua applicazione per ottenere che vengano inserite in fase di recepimento della direttiva stessa rischia di essere una rivendicazione ambigua. Inoltre, l’esclusione delle sanzioni per i datori di lavoro che si autodenunciano (e la possibilità di regolarizzazione lasciata ancora una volta all’iniziativa dei datori di lavoro) appare dettata da ragioni che non salvaguardano il destino dei lavoratori, ma sono dettate da considerazioni opportunistiche. Appare evidente il tentativo di evitare che possano scattare le sanzioni penali ed economiche previste dalla direttiva anche in caso di subappalti e di società costituite fittiziamente per aggirare la legge.
Ci è sembrato opportuno fornire questi chiarimenti tecnici perché le richieste presenti nelle piattaforme di movimento non risultino appiattite sulla mera applicazione della direttiva europea che, in quanto tale, non sembra garantire un’adeguata tutela per i lavoratori migranti irregolari.

Enrica Rigo – Università di Roma Tre
Fulvio Vassallo Paleologo – Università di Palermo

Di seguito si riportano alcune disposizioni rilevanti della direttiva:
paragrafo 15 del preambolo:
“Il cittadino di un paese terzo assunto illegalmente non dovrebbe poter invocare un diritto di ingresso, soggiorno e accesso al mercato del lavoro in base al rapporto di lavoro illegale o al pagamento, anche arretrato, di retribuzioni, contributi previdenziali o imposte da parte del datore di lavoro o di un soggetto giuridico tenuto ad effettuare il pagamento in sua vece”.
Art. 2: par. d) si definisce:
«lavoro illegale»: l’impiego di un cittadino di un paese terzo il cui soggiorno è irregolare;
Art. 3:
Gli Stati membri vietano l’assunzione di cittadini di paesi terzi il cui soggiorno è irregolare.
Art. 13:
“gli Stati membri definiscono ai sensi della legislazione nazionale le condizioni alle quali possono essere concessi, caso per caso, permessi di soggiorno di durata limitata, commisurata a quella dei relativi procedimenti nazionali, ai cittadini di paesi terzi implicati, con modalità comparabili a quelle applicabili ai cittadini di paesi terzi rientranti nell’ambito di applicazione della direttiva 2004/81/CE.”

Il testo integrale della direttiva è consultabile, nei link, al sito:
http://www.asgi. it/home_asgi. php?n=441&l=it

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