venerdì 21 agosto 2009

Strage di migranti nel canale di Sicilia. Il racconto di un superstite


Venerdì 21 Agosto 2009 17:49
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[Uno degli eritrei soccorsi]

Uno degli eritrei soccorsi
di Alessandro Bongarzone

ROMA - “Quando abbiamo visto quel peschereccio avvicinarsi pensavamo di avercela fatta. A bordo molti erano già morti, ma in tanti, almeno una trentina, eravamo ancora vivi. Eravamo stremati, stanchi, disperati, ma gli uomini di quel peschereccio, quando l'imbarcazione si è avvicinata, ci hanno dato soltanto un paio di bottiglie d’acqua e qualcosa da mangiare. Poi sono spariti, se ne sono andati via”.


Chi parla è Hampton, 17 anni appena compiuti. Per quel che vale (per quel che conta) è un cittadino eritreo in fuga dalla miseria che, la freddezza dei numeri, evidenzia in quegli 858 dollari di PIL pro capite l’anno (2,35 $ al giorno). E’ il più giovane dei cinque sopravvissuti all'ultima strage del mare nel canale di Sicilia, la prima dopo l’entrata in vigore del nuovo “pacchetto sicurezza” voluto dal governo. Dall’infermeria del centro di accoglienza di Lampedusa, dove da ieri è assistito insieme agli altri scampati al naufragio, tre uomini e una donna, tutti eritrei, tutti “cristiani”, racconta della sua disavventura: dei venti giorni passati in mare su un gommone alla deriva; dei 68 connazionali morti - per gli stenti della fame e della sete, per le ustioni del sole e dei vapori della benzina - uno dopo l’altro, come le mosche.

Hampton, ha detto di essere partito il 28 luglio scorso da Tripoli, a bordo di un barcone con altre 78 persone. Dopo 6 giorni di viaggio però erano terminati cibo, acqua, benzina e l’imbarcazione, quindi, un gommone di 12 metri, avrebbe proseguito spinta dal vento e priva di rotta. Le persone avrebbero cominciato a morire e man mano che morivano venivano gettate in mare.

Nel suo racconto, Hampton, fuga qualsiasi dubbio circa il mancato avvistamento del gommone. In queste ore, infatti, sono stati in molti a domandarsi - primo tra tutti il responsabile del Viminale che, peraltro, non crede alla versione dei naufraghi che “contrasterebbe” con le sue fonti - come sia stato possibile che in quella zona, così pattugliata, sia potuto sfuggire un gommone e il suo carico di morte.

Dal racconto di Hampton, invece, appare evidente che, non solo l’avvistamento c’è stato ma, anche, il contatto. “Non credevamo - afferma il ragazzo - a quello che stava accadendo, gli uomini di quel peschereccio hanno visto che stavamo morendo, ma non ci hanno portato a bordo. Non erano italiani, parlavano inglese. Speravamo che magari dessero l'allarme, che segnalassero la nostra posizione a qualcuno, invece siamo rimasti in mare per altri giorni e tutti gli altri che erano ancora vivi, tranne noi cinque, sono morti.”

Titti, un’altra scampata, è ancora più esplicita: “Finita la benzina, il gommone ha iniziato ad andare avanti e indietro, girava attorno a se stesso. Di giorno era un inferno, il sole e l'acqua salata martoriavano le nostre carni, la notte c'era freddo e non avevamo nulla per riscaldarci. Oltre a quel peschereccio che se n’è andato via, abbiamo incontrato altre barche o altre navi, almeno dieci, non li distinguevamo bene da lontano. Forse ci hanno anche visto, io e i pochi ancora con qualche energia gridavamo, sventolavamo le nostre magliette. Tutto inutile.
Nessuno ci ha mai avvicinato e così cominciavamo a morire”.

Insomma, checché ne dica il ministro, al largo delle coste siciliane, nei giorni scorsi è andata in scena la nuova strategia del soccorso in mare, voluta fortemente dal governo italiano e dalle sue politiche di contrasto all’immigrazione: quella delle “tre scimmiette”. Nessuno ha visto, nessuno ha sentito e nessuno ha parlato anche quelli che, dopo aver fatto finta di aiutare, hanno deciso di farsi, è il caso di dirlo, gli “affari propri”.

E del resto, eravamo fin troppo facili profeti quando, all’indomani della disputa tra Italia e Malta sul mercantile “Pinar”, bloccato per più di una settimana - lo scorso aprile - al largo delle coste di Lampedusa, dopo aver soccorso un barcone con 130 naufraghi, avevamo detto che dopo tale fatto nulla sarebbe stato più come prima. Non si trattava, certamente di vaticinio ma, almeno per noi, appariva evidente che non ci sarebbe più stato alcun armatore o proprietario di nave che avrebbe autorizzato l’intervento di salvataggio in mare, correndo il rischio di penali (e chissà cos’altro) per il ritardo nelle consegne dovuto ai rimpalli di responsabilità tra le due nazioni in lotta per “scansare” i naufraghi.

Ed eccoci, dunque, alla situazione di oggi con le autorità maltesi che, all’alba del 20 luglio, verificato che i naufraghi si trovavano a 19 miglia da Lampedusa, in acque di competenza italiana, lanciano l’allarme e il governo italiano, ormai informato del fatto, non può più tirarsi indietro. E’ questa, dunque, la nuova politica della sicurezza: ognun per se e Dio per tutti!

Deve essere per questo motivo, quindi, che il Vaticano - tirato in ballo - rompe gli indugi e, oggi, affida la sua critica al governo all’editoriale di Marina Corradi su L’Avvenire.
“C’è, in questo episodio, almeno un equivoco in cui non è ammissibile cadere. Nessuna politica di controllo dell'immigrazione consente a una comunità internazionale di lasciare una barca carica di naufraghi al suo destino. In mare - prosegue l’editorialista - si soccorre. Poi, a terra, opereranno altre leggi: diritto d'asilo, accoglienza, respingimento. Poi. Ma le vite, si salvano”.

Il giornale dei vescovi italiani non lesina critiche e, attaccando la “nuova legge del non vedere”, arriva a paragonare questo atteggiamento a quello tenuto dall’occidente durante la shoa. “Quando, oggi, leggiamo delle deportazioni degli ebrei sotto il nazismo - scrive la Corradi - ci chiediamo: certo, le popolazioni non sapevano; ma quei convogli piombati, le voci, le grida, nelle stazioni di transito nessuno li vedeva e sentiva? Allora erano il totalistarismo e il terrore, a far chiudere gli occhi. Oggi no. Una quieta, rassegnata indifferenza, se non anche una infastidita avversione, sul Mediterraneo. L'Occidente a occhi chiusi”.

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